04 Set Memorandum ( RIVISTA TRIBUTI DEL MINISTERO DELLE FINANZE – 1997 )
MASSIME DELLA SENTENZA
- Disposizioni fiscali – Armonizzazione delle legislazioni – Imposte indirette sulla raccolta di capitali – Concessione di un prestito senza interessi ad una società – Assoggettamento all’imposta sui conferimenti – Ammissibilità.
[Direttiva del Consiglio 69/335/CEE, art. 4, n. 2, lett. b)]
- Disposizioni fiscali – Armonizzazione delle legislazioni – Imposte indirette sulla raccolta di capitali – Sfera di applicazione – Imposte dirette sul reddito delle società – Esclusione – Competenza propria degli Stati membri.
[Direttiva del Consiglio 69/335/CEE, art. 10]
- L’art. 4, n. 2. lett. b) della Direttiva 69/335, concernente le imposte indirette sulla raccolta dei capitali, dev’essere interpretato nel senso che, quando una società fruisce di un prestito senza interessi, esso si applica all’importo degli interessi risparmiati.
Infatti la concessione di un prestito senza interessi ad una società, consentendole di disporre di capitali senza doverne sostenere l’onere, determina, a seguito del risparmio degli interessi che ne consegue, un aumento del patrimonio sociale ed è in grado, contribuendo al rafforzamento del suo potenziale economico, di aumentare il valore delle sue quote sociali.
- L’art. 10 della Direttiva 69/335 non osta a che una società controllante che ha accordato un prestito senza interessi a una delle società da essa controllate sia assoggettata all’imposta sui redditi in base ad un interesse fissato a posteriori. Infatti, la Direttiva è intesa ad abolire le imposte indirette che, pur essendo diverse dall’imposta sui conferimenti, hanno le stesse caratteristiche di quest’ultima, e non riguarda le imposte dirette, le quali, come l’imposta sui redditi delle società, rientrano nell’ambito delle competenze proprie degli Stati membri.
Premesse
La sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee (“la Sentenza”) pone un ulteriore tassello all’opera di interpretazione dell’importante Direttiva del Consiglio 69/335/CEE[1] (“la Direttiva”) in materia di imposte indirette sulla raccolta di capitali.
Con la duplice pronuncia[2], il Giudice comunitario ha chiarito che se, da un lato, il prestito infruttifero determinato a vantaggio della società controllata integra il presupposto oggettivo dell’applicazione del disposto della Direttiva (art. 4, n. 2, lett. b), tuttavia, dall’altro, ciò non preclude agli Stati membri la possibilità di considerare il conferimento derivante da un prestito infruttifero (nella misura dell’interesse non corrisposto) come base imponibile per l’applicazione delle imposte sui redditi della società finanziatrice / conferente.
Le questioni pregiudiziali poste all’attenzione della Corte di Giustizia da parte dell’Østre Landstret[3] trovano origine nel contenzioso – A/S Richard Frederiksen & Co. (“la Società” danese finanziatrice) contro Skatteministeriet (il Ministero danese delle Imposte) – avente ad oggetto la tassazione di un maggiore reddito imponibile della Società.
L’Amministrazione finanziaria danese (legittimata da una locale giurisprudenza) ha, infatti, proceduto – per via dell’esistenza di un prestito infruttifero ad una società (controllata) – con la rettifica delle dichiarazioni fiscali della Società finanziatrice (controllante), per un importo pari agli interessi non percepiti, trattandosi di operazione non abituale rispetto ad un normale comportamento di mercato, accordato in ragione della presenza di una palese comunione di interessi (società facenti parte del medesimo gruppo).
Le questioni pregiudiziali
Il giudice a quo ha posto due quesiti per valutare la compatibilità della misura adottata dall’Amministrazione finanziaria danese (applicazione di maggiori imposte sui redditi) con il disposto della Direttiva :
(i) il primo, finalizzato a verificare l’applicabilità della Direttiva al prestito infruttifero, riconducendo il valore degli interessi non corrisposti alla fattispecie dell’aumento del patrimonio sociale di cui all’art. 4, n. 2, lett. b;
(ii) il secondo volto a definire se la Società non possa essere assoggettata all’imposta sui redditi su quegli interessi non ricevuti, sempreché considerati conferimenti, per via del divieto posto dall’art. 10 che impedisce agli Stati membri di applicare a detti conferimenti ulteriori imposizioni, sotto qualsiasi forma[4].
La prima questione pregiudiziale. L’art. 4, com’è noto, provvede a definire l’ambito oggettivo delle norme contenute nella Direttiva; con esso il legislatore comunitario individua le operazioni:
(i) che sono sottoposte all’imposta sui conferimenti (paragrafo 1);
(ii) che possono essere sottoposte all’imposta sui conferimenti (paragrafo 2).
Per quel che qui rileva, la lettera b) del paragrafo 2 considera potenzialmente sottoponibile ad imposta sui conferimenti “l’aumento del patrimonio sociale di una società di capitali mediante prestazioni effettuate da un socio che non implicano un aumento del capitale sociale, ma che trovano la loro contropartita in una modifica dei diritti sociali ovvero che possono aumentare il valore delle quote sociali”.
Ebbene, il giudice comunitario, comprensibilmente, considera il risparmio degli interessi – non corrisposti a fronte dell’ottenimento di un prestito infruttifero – in grado di rafforzare il potenziale grado economico del debitore[5]: “tale importo costituisce infatti l’arricchimento conseguito donandi causa dalla società figlia ed equiparato dalla Direttiva ad un conferimento”[6].
Sulla scorta di tali considerazioni la Sentenza risolve la prima questione pregiudiziale ammettendo l’applicabilità dell’art. 4, n. 2, lett. b alla fattispecie degli interessi non corrisposti e dunque risparmiati relativi ad un prestito non remunerato.
La seconda questione pregiudiziale. Il giudice comunitario esclude, rispondendo alla seconda questione pregiudiziale, l’incompatibilità dell’assoggettamento ad imposta sui redditi degli interessi non corrisposti, con il disposto dell’art. 10 della Direttiva.
E ciò per diverse ragioni.
In primo luogo, pur prevedendo l’art. 10 che “oltre all’imposta sui conferimenti, gli Stati membri non applicano (…) nessun’altra imposizione, sotto qualsiasi forma”[7], tuttavia, è bene precisare che la sovrapposizione di imposte (indirette e dirette) è, nel caso di specie, meramente apparente.
In realtà, com’è noto, il soggetto passivo dell’eventuale imposta indiretta è il beneficiario del finanziamento, colui che ottiene l’incremento del patrimonio, mentre il soggetto passivo delle imposte sui redditi contestati dall’Amministrazione finanziaria danese risulta essere la società erogante il finanziamento.
In secondo luogo, da un punto di vista letterale, è possibile individuare diversi spunti che delineano l’ambito di applicazione della Direttiva alle sole manifestazioni impositive indirette: nella stessa Sentenza si rinvia, infatti, al tenore del titolo, del secondo e dell’ultimo considerando della Direttiva[8].
Peraltro, si potrebbero fare altri riferimenti alla lettera della Direttiva, che sempre attiene ad imposte che indirettamente colpiscono la capacità contributiva del soggetto passivo ed in frangente alcuno contempla fattispecie impositive dirette[9].
In terzo luogo, emerge il dato fondamentale per cui lo spirito con il quale il legislatore comunitario ha pronunciato i principi della Direttiva in esame sia quello dell’armonizzazione delle normative in materia di imposte indirette riferite ai conferimenti (nelle accezioni definite nel cit. art. 4), con ciò non influendo nell’ambito delle competenze degli Stati membri relativamente alle imposte dirette.
Il giudice comunitario non ha dubbi nell’asserire che “da tali elementi emerge chiaramente che la Direttiva è diretta ad abolire le imposte indirette, diverse dall’imposta sui conferimenti, che hanno le stesse caratteristiche di quest’ultima. Siffatta limitazione della sfera di applicazione della Direttiva alle imposte indirette risulta inoltre dalle varie versioni linguistiche, eccetto la versione danese, che non è altrettanto esplicita su questo punto”.
Conclusioni
La pronuncia del Giudice comunitario offre un interessante spunto di riflessione avente ad oggetto una questione di sicuro interesse per i contribuenti e l’Amministrazione Finanziaria del nostro Paese.
Da tempo in Italia si discute della non applicazione, per contrasto con la normativa comunitaria, dell’imposta sul patrimonio netto delle società di capitali.
Com’è noto, il D.L. 30 settembre 1992, n. 394[10] ha istituito la cosiddetta imposta patrimoniale limitatamente ai periodi di imposta 1992, 1993 e 1994[11].
Le caratteristiche di tale imposta possono essere sinteticamente individuate nella base imponibile coincidente (sia pure con particolari variazioni) con il patrimonio netto, nell’aliquota del 7,5 per mille e nei soggetti passivi, tra cui rilevano anche le società di capitali.
Ebbene, la Direttiva, come si è sin ora rammentato, ha predisposto un meccanismo di armonizzazione tra gli Stati membri del sistema impositivo relativo ai capitali investiti nell’impresa, nelle diverse forme considerate (da ora sinteticamente “i conferimenti”). Secondo tale meccanismo, sono in linea di massima incompatibili ulteriori forme impositive indirette rispetto alla regolamentata imposta sui conferimenti (nel caso dell’Italia, l’imposta di registro).
Prescindendo da una serie di considerazioni volte a chiarire la diretta applicabilità della Direttiva (che si ritiene possa essere ragionevolmente data per certa), non può mancare un riferimento alle sentenze della Sezione XII della Commissione Tributaria di I Grado di Firenze[12] che ha dichiarato la non applicazione della norma italiana, relativa all’imposta sul patrimonio netto[13].
Il punto su cui conviene effettuare una riflessione, in attesa di chiarimenti da parte della medesima Corte di Giustizia, sembra essere quello relativo alla natura diretta o indiretta dell’imposta sul patrimonio netto, posto che a fondamento della pronuncia in commento è possibile rinvenire il principio per cui l’applicazione del divieto di cui all’art. 10 della Direttiva deve essere riservata alle imposte indirette.
De visu, “la patrimoniale” colpendo direttamente la capacità contributiva (la base imponibile è data dal patrimonio netto del soggetto passivo) sembrerebbe riconducibile alla fattispecie dell’imposta diretta e, come tale, fuori dal campo di applicazione del divieto di cui all’art. 10.
In realtà la questione deve essere affrontata con maggiore attenzione, utilmente allo scopo di individuare la concreta natura del tributo in questione.
Le stesse sentenze della Commissione Tributaria di Firenze (n. 32 e 33), nel sancire il contrasto della norma sull’imposta patrimoniale con la Direttiva, chiariscono che «l’imposta sul patrimonio netto è (…) una vera e propria “tassa di effetto equivalente” rispetto a quella oggetto della Direttiva comunitaria». A parere della Commissione, si tratta di una tassa di effetto equivalente per il fatto che “l’imposta sul patrimonio netto delle imprese è un’imposta che colpisce il capitale della società e tutte le altre voci che compongono il patrimonio in modo proporzionale, non progressivo, ogni anno, vanificando così l’aliquota sul capitale conferito inizialmente e aumentando questa di anno in anno, sottoponendo così ad imposizione il capitale conferito e quello raccolto. Attraverso una postergazione della imposizione si vanifica di fatto il dettato del legislatore comunitario che esige un’unica iniziale e definitiva imposta sul capitale”.
È, dunque, l’effetto equivalente che rende incompatibile l’imposta con il principio stabilito dalla Direttiva: “il fatto che una [l’imposta di registro, o sui conferimenti] si configuri, da un punto di vista puramente teorico, come imposta ”indiretta” e l’altra [l’imposta sul patrimonio netto] come imposta [sempre in linea strettamente teorica] “diretta” non deve ingannarci sul fatto che ad essere tassato in realtà è sempre il medesimo capitale, visto come potenziale fonte di produzione di ricchezza e quindi come espressione di capacità contributiva”[14]
In sostanza, l’interpretazione data dalla Sentenza in parola all’art. 10 (il divieto per gli Stati membri di prevedere ulteriori imposte è limitato alle sole imposte indirette) non sembra porre un ostacolo alla tesi dell’incompatibilità dell’imposta sul patrimonio delle imprese con il diritto comunitario. Ciò in ragione del fatto che la natura “diretta” dell’imposta patrimoniale (che a rigor di logica la sottrarrebbe dalla nota incompatibilità) è meramente apparente: in realtà, infatti, tutto lascia intendere che l’imposta sul patrimonio netto delle imprese si atteggia come un’imposta indiretta sui conferimenti differita nel pagamento e, come tale, incompatibile con il divieto di cui al più volte citato art. 10.
Ad ogni buon conto, in attesa di un chiarimento da parte del Giudice comunitario, il dato che emerge (e non si tratta di una novità) è che sempre più le decisioni prese in sede comunitaria risultano determinanti per le sorti dei contenziosi locali: da non poco tempo ciò riguarda anche il diritto tributario. Quel che appare come un elemento di complessità superiore in realtà chi scrive ritiene si rivelerà (come si sta rivelando) una fonte “esterna” di equità fiscale, con tutti i suoi pro e contro.
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