Anche la cassazione vuole analisi concrete e specifiche dei territori di interesse per giudicare le limitazioni di orari imposte dai Comuni. GERONIMO CARDIA, JAMMA – febbraio 2024

Nell’articolo intendiamo focalizzare alcuni principi enucleabili da una recente pronuncia della Corte di Cassazione. Detti principi, più volte invocati dagli operatori in sede di impugnazione dei provvedimenti comunali delle limitazioni di orari consistono anzitutto nel fatto che, per valutare l’esigenza e l’idoneità di una limitazione di orari per il perseguimento della tutela della salute degli utenti, occorre che siano prodotte analisi, da un lato, concrete e non astratte e, dall’altro, che riguardino lo specifico territorio comunale di interesse e non in generale quello regionale o addirittura nazionale o internazionale. Vi sono infine anche riflessioni sulla non discriminazione dei provvedimenti, sull’Intesa del 2017 non attuata ma che è sempre presente con i suoi principi e sul riordino che va attuato per l’intero comparto e non per una parte di esso.

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Premessa
Si tratta della sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 35336 del 2023 pubblicata il 18/12/2023 resa in un giudizio sorto in relazione a presunte violazioni del regolamento comunale di Milano in materia di orari n. 63/2014 con le fasce orarie di funzionamento (dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 18.00 alle 23.00).
Sullo sfondo del giudizio di legittimità vi è una questione di merito relativa alla richiesta da parte di un’associazione di consumatori, formulata ai sensi dell’art. 37 del D.Lgs. 206/2005 (il Codice di Consumo), di inibire ad un operatore del gioco milanese la “prosecuzione dell’azione lesiva dei diritti garantiti ai consumatori”, consistente nelle richiamate asserite violazione degli orari comunali.
In tutti e tre i gradi di giudizio vengono proposti messi in rilievo alcuni spunti sui quali merita di soffermarsi.

Il giudizio di primo grado
Viene ricordato che il ricorrente eccepisce: (i) il fatto che non sarebbe stato “provato alcun danno subito dai consumatori quale conseguenza dell’asserita violazione dell’orario di apertura e chiusura delle sale”; (ii) vi è una “situazione di assoluta incertezza” determinata in materia di orari con il sopraggiungere della Conferenza Unificata; (iii) esiste il principio dell’Intesa secondo cui i provvedimenti non possono superare il limite massimo di divieto di 6 ore giornaliere; e (iv) gli orari del provvedimento comunale riguardano solo gli apparecchi e non l’intera sala in sui essi sono installati, dedicata anche ad altri tipi di attività.
Di questi punti il Tribunale, in particolare, per risolvere la questione sceglie di sottolineare l’aspetto della mancata prova del danno.

Il giudizio di secondo grado
Nella sentenza del giudizio di appello che ha rigettato il ricorso promosso dall’associazione dei consumatori e che la sentenza della Cassazione tiene a ricordare, si pone l’accento su diversi aspetti interessanti: (i) l’esistenza di un “contrasto giurisprudenziale sull’applicabilità dell’Intesa” che si divide tra chi la nega, per la nota mancanza del decreto attuativo del Ministero dell’Economia delle Finanze, e chi, nonostante la mancanza di detto decreto, riconosce ai suoi principi comunque individuati un’efficacia cogente; (ii) l’oggetto del contendere “non è l’ordinanza sindacale in quanto tale bensì <<il mancato rispetto della stessa quale mezzo di tutela per la salute dei consumatori>>”; (iii) “l’intervento dell’autorità amministrativa in materia di apertura (…) deve essere ispirato al principio di proporzionalità che impone di adottare un provvedimento <<non eccedente quanto sia opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato>> (…) [con] il minor sacrificio possibile per gli interessi coinvolti”; (iv) “i motivi di interesse generale che consentivano limitazioni di orario non potevano consistere in <<un’apodittica e indimostrata enunciazione>> ma dovevano concretarsi in ragioni specifiche, <<da esplicitare e documentare in modo puntuale>>”, non essendo sufficiente il riferimento a non meglio specificati studi clinici sulle dipendenze, censurando il “generico riferimento a fatti notori”, rendendosi invece necessari “specifici <<studi clinici>> correlati allo specifico ambito territoriale attinto dalle misure in concreto adottate”; (v) l’associazione dei consumatori non avrebbe “adeguatamente provato come l’imposizione dell’obbligo (…) di rispettare l’ordinanza comunale fosse idoneo a diminuire i volumi di gioco (…)”.

Il danno agli utenti non è provato
La Cassazione, difendendo l’operato del giudice di secondo grado, in sostanza conferma il fatto che per inibire al punto di gioco di continuare ad esercitare l’attività al di fuori degli orari posti dal Comune di Milano occorre che sia provata l’esistenza di un danno agli utenti, che detta prova sia data dalla ricorrente associazione dei consumatori e che le prove da questa prodotte non sono né specifiche né relative al territorio di riferimento.
In particolare al riguardo viene ribadito che: (i) non sono considerati sufficienti i riferimenti in astratto al generale fenomeno del “gioco d’azzardo lecito” ed ai suoi effetti sociali e sanitari, perché mancherebbero riscontri di “attendibili studi scientifici riferiti allo specifico ambito locale”, (ii) non possono essere considerati generici riferimenti a fatti asseritamente notori, fatti, dati o statistiche anche di ASL o del “libro “Gamblig”, o di ADM se non attinenti alla specifica realtà locale di Milano.

Andrebbe provata in modo specifico e puntuale anche l’ordinanza comunale
La Cassazione sottolinea un altro aspetto interessante che è quello secondo cui è vero che il contenzioso non riguarda direttamente l’ordinanza comunale ma la verifica dei presupposti per imporre l’inibizione ai sensi dell’articolo 37 del codice dei consumatori, è vero che il ricorrente non ha dato la prova del danno con elementi specifici e puntuali sul territorio, ma è anche vero che, come giustamente riferito anche dal giudice di secondo grado, anche l’ordinanza comunale dovrebbe presupporre l’esistenza di un “previo esperimento di un’istruttoria specificamente riferita al territorio comunale, anche per garantire la tenuta in concreto dei superiori principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa di rango costituzionale ed eurounitario (…) con la precisazione che non è sufficiente il richiamo a fatti notori e affermazioni relative al fenomeno in generale, dovendo essere evidenziata una realtà particolarmente preoccupante, desumibile da una fonte certa , e che deve, dunque, essere fornita la dimostrazione della necessità sullo specifico territorio di riferimento di una maggiore tutela rispetto a quello nazionale che possa essere raggiunta con quella determinata limitazione oraria di accesso al gioco e che, una volta attuata, questa misura non comporti effetti indiretti, quali, ad esempio, lo spostamento della domanda verso forme di gioco illegale (Consiglio di Stato, sentenza n. 9639 del 10 novembre 2023)”.

Conclusioni
Nelle pagine della sentenza di Cassazione ci sono molti spunti di riflessione.
Anzitutto ci sono tutti i motivi di impugnazione da oltre dieci anni proposti dagli operatori che tengono in alto i principi generali a partire dalla verifica delle concreta tutela dell’utente. E questo è un bel leggere.
Inoltre, c’è lo spunto per il riferimento al problema della natura discriminatoria dei provvedimenti adottati dai Comuni (ma cosi come dalle Regioni) ai prodotti di gioco distribuiti dal canale on site, ed in particolare solo ad alcuni di essi, se non sempre solo agli apparecchi, e non anche ai prodotti on line, peraltro della stessa natura e sempre “consumati” dagli utenti sugli stessi territori.
Ed al riguardo non v’è chi non veda che se non c’è un’istruttoria (come dovrebbe esserci) che dimostri in concreto e puntualmente su quel territorio tanto l’esigenza quanto la bontà della misura su quello specifico gioco, rispetto all’obiettivo di tutelare l’utente, sia prima di adottare il provvedimento sia nel corso della sua applicazione, se manca tutto questo, il provvedimento adottato oltre che discriminatorio è anche dannoso perché è in grado di comportare lo sversamento della domanda e, se ci sono, delle patologie su altre tipologie di giochi, illegali e non, distribuiti con il canale on site e non.
Ma su tutto c’è il richiamo all’Intesa del 7 settembre del 2017, all’incertezza irredimibile che ha lasciato con la sua mancata formalizzazione finale, alla polarizzazione di due gruppi di precedenti giurisprudenziali che lasciano irrisolti i problemi per una parte importante del comparto del gioco on site.
E questo fa riflettere soprattutto perché, numeri alla mano, la verticale distributiva degli apparecchi in un modo o in un altro contribuisce (ancora) per oltre la metà del gettito erariale complessivo e assicura presidio di legalità sui territori raggiungendo oltre 6.000 degli 8.000 comuni italiani, senza parlare del contributo dato ai volumi dell’occupazione della filiera.
E così occorre chiudere ancora una volta con un riferimento alla politica ed alla esigenza di riordino, al fatto che questo è stato previsto dalla delega fiscale in forma complessiva per tutte le tipologie di giochi l’anno scorso ma che nella sua fase di applicazione per ora ha visto un avvio per la sola componente on line.
In questi mesi si vedrà se effettivamente la soluzione alla Questione Territoriale è a un passo o se ancora sarà procrastinata nel tempo.

Geronimo Cardia



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