23 Mar Corte di Giustizia delle Comunità Europee
Sentenza 7 maggio 1998; causa C-124/96; Pres. Ragnemalm, Avv. Gen. A. La Pergola; tra Commissione delle Comunità europee e Regno di Spagna sostenuto da Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.
MASSIMA DELLA SENTENZA
Disposizioni Fiscali – Armonizzazione delle legislazioni – Imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto – Esenzioni previste dalla sesta direttiva – Esenzione di talune prestazioni di servizi strettamente connesse con la pratica dello sport eo dell’educazione fisica, fornite da enti senza fini di lucro alle persone che praticano le dette attività – Normativa nazionale che limita l’esenzione agli stabilimenti privati che percepiscono quote di ingresso non eccedenti un determinato importo – Inammissibilità.
[Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, art. 13, parte A, n. 1, lett. m) e n. 2, lett. a), terzo trattino]
Stabilendo che l’esenzione dall’IVA a favore delle prestazioni strettamente connesse con la pratica dello sport o dell’educazione fisica si applica solo agli stabilimenti privati le cui quote di ingresso o i cui canoni periodici non superino un certo importo, il Regno di Spagna è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza dell’articolo 13, parte A, n. 1, lett. m), della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme.
Criteri identificativi delle fattispecie di esenzione: norme comunitarie e norme di diritto interno a confronto.
Sommario: 1. Premessa; 2. La norma comunitaria; 3. La norma di diritto spagnolo; 4. Considerazioni di sintesi.
- Premessa.
Questa volta la sentenza in commento, pur riguardando l’interpretazione di disposizioni comunitarie in materia fiscale, non risponde ai dubbi sollevati da giudici nazionali nell’ambito della procedura di cui all’articolo 177 del Trattato di Roma.
Si tratta, piuttosto, di una controversia sorta tra la Commissione delle Comunità europee ed il Regno di Spagna avente ad oggetto la contestazione, da parte della prima, del contenuto di alcune disposizioni fiscali di diritto interno spagnolo.
Il procedimento che ha portato la Corte di Giustizia ad interessarsi della questione è previsto dall’articolo 169 del trattato di Roma[1] che, come è noto, prevede il controllo sulla corretta applicazione del diritto comunitario negli Stati membri, attraverso la cosiddetta procedura di infrazione[2].
L’esercizio proposto dalla sentenza in esame è interessante: si tratta, infatti, di confrontarsi con la valutazione esperta fornita dalla Corte di Giustizia non solo in relazione alla norma comunitaria, ma anche con riferimento alla disposizione di diritto interno.
Il caso specifico riguarda l’applicazione dell’esenzione iva ad alcune fattispecie. Il principio generale posto dalla norma comunitaria prevede la concessione del regime di esenzione nei confronti di alcune attività che presentano la caratteristica di essere di interesse pubblico, tra queste ne vengono individuate talune di natura sportiva fornite da organizzazioni senza scopo lucrativo.
Nell’ambito dell’ordinamento giuridico spagnolo la norma di esenzione è stata recepita con un adattamento: il regime di esenzione è applicato in relazione a quelle attività sportive poste in essere tra l’atro da organismi o stabilimenti privati a carattere sociale che impongono ai propri associati, e qui è l’oggetto del contendere, quote di ingresso o quote periodiche non superiori a determinati limiti.
Il criterio identificativo dei soggetti è stato contestato in sede comunitaria, sino a giungere, come detto, all’attenzione della Corte di Giustizia, per effetto del ricorso presentato dalla Commissione.
Per un riscontro dei principi posti a base della contestazione è necessario analizzare più da vicino sia la norma comunitaria, sia la norma di diritto spagnolo.
- La norma comunitaria.
In relazione alla fattispecie in esame, la norma comunitaria è caratterizzata da un principio generale e da una disposizione, per così dire, applicativa.
Da un lato, il principio generale prevede l’esenzione con riferimento alle prestazioni di servizio connesse con la pratica dello sport se fornite da organizzazioni senza scopo lucrativo in favore di soggetti che esercitano lo sport o l’educazione fisica[3].
Al principio generale gli Stati membri possono comunque porre limitazioni, subordinando la concessione in esame a condizioni (non specificate dal legislatore comunitario ma comunque) aventi lo scopo di assicurare quella che la direttiva definisce corretta e semplice applicazione delle esenzioni e l’obiettivo di prevenire frodi, evasioni ed abusi.
Dall’altro, per quanto concerne la disposizione applicativa, con essa è concesso agli Stati membri di subordinare ulteriormente la concessione dell’esenzione nei casi in cui il soggetto erogante non sia un organismo di diritto pubblico[4]. Ai soggetti privati gli Stati membri possono, infatti, imporre di:
- non avere scopo di lucro;
- essere gestiti gratuitamente da soggetti privi di interessi diretti nell’attività;
- praticare prezzi approvati dalle autorità pubbliche, o comunque inferiori ad essi o ai prezzi di mercato imposti da imprese soggette ad iva;
- non provocare distorsioni di concorrenza a danno delle imprese soggette all’iva.
- La norma di diritto spagnolo.
Nell’ambito del diritto spagnolo la norma di esenzione prevista dalla direttiva può essere rinvenuta nell’ambito dell’articolo 20 della legge 37/92[5].
Esso prevede l’esenzione per le prestazioni di servizio connesse direttamente con la pratica dello sport in favore di persone fisiche che praticano lo sport o l’educazione fisica, se effettuate, tra gli altri, da soggetti privati a carattere sociale le cui quote di ingresso o i cui canoni periodici non superano determinati importi.
- Considerazioni di sintesi
Va detto preliminarmente che per giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia[6], l’articolo 13 della direttiva, in effetti, prevede un obbligo preciso degli Stati membri a concedere l’esenzione iva per le attività in esame. Sin qui, nulla di nuovo.
Quello che conta è che i limiti all’esenzione ammissibili non possono differire dalle condizioni che lo stesso legislatore comunitario ha, se non elencato, quantomeno indicato.
Il criterio identificativo spagnolo sembrerebbe non compatibile con la natura delle condizioni che il legislatore comunitario ha concesso agli Stati membri.
Ciò è dimostrabile verificando che il criterio selettivo contestato non è riconducibile, in realtà, né ai parametri richiesti dal principio generale (enti non aventi scopo di lucro), né alle possibili (non obbligatorie) condizioni indicate dal legislatore comunitario.
Dette condizioni, come già evidenziato, sono sostanzialmente identificabili in cinque categorie:
- condizioni per assicurare la corretta e semplice applicazione dell’esenzione e per prevenire ogni possibile frode, evasione ed abuso;
- gli enti non devono avere per fine la ricerca sistematica del profitto: gli eventuali profitti non dovranno mai essere distribuiti ma dovranno essere destinati al mantenimento o al miglioramento delle prestazioni fornite;
- gli enti devono essere gestiti e amministrati a titolo essenzialmente gratuito da persone che non hanno di per sé o per interposta persona alcun interesse diretto o indiretto ai risultati della gestione;
- gli enti devono praticare prezzi approvati dalle autorità pubbliche o che non superino detti prezzi approvati, ovvero, per le operazioni i cui prezzi non sono sottoposti ad approvazione, praticare prezzi inferiori a quelli richiesti per servizi analoghi da imprese commerciali soggette all’imposta sul valore aggiunto;
- le esenzioni non devono essere tali da provocare distorsioni di concorrenza a danno delle imprese commerciali soggette all’imposta sul valore aggiunto
Per quanto concerne il punto (i), va detto che il criterio spagnolo non sembra poter essere identificato come metodo per la corretta e semplice applicazione dell’esenzione, in quanto esso, pur se di semplice applicazione, non consente di effettuare una discriminazione esatta dei soggetti, in base alle caratteristiche richieste dal legislatore comunitario.
Come di seguito chiarito, non è detto che ad una quota partecipativa contenuta corrisponda l’assenza del fine di lucro.
Del tutto evidente, inoltre, appare l’estraneità del criterio contestato alle esigenze di evitare frodi o abusi nell’applicazione dell’esenzione.
Per quanto si potrebbe debolmente sostenere che più contenuto è il corrispettivo, più contenuto potrebbe risultare l’eventuale abuso o l’ipotetica frode.
Tuttavia ciò è vero se si ragiona in termini di singolo fruitore del servizio, mentre risulta smentito se solo si pensa che gli utilizzatori potrebbero essere numerosissimi e quindi elevati i volumi della frode e degli abusi.
Per quanto concerne la condizione di cui al punto sub (ii) che precede, sembra si possa affermare, a conferma di quanto già osservato relativamente al punto (i), che il criterio dei limiti contributivi non possa essere considerato esemplificativo del principio della non lucratività dei soggetti prestatori del servizio.
Diversamente si dovrebbe condividere la presunzione del legislatore spagnolo, secondo cui i soggetti che impongono quote partecipative (di ingresso o periodiche) basse sarebbero privi di scopo di lucro.
In realtà, non è possibile individuare un costo base per l’esercizio di tutte le attività sportive: ogni disciplina comporta un impiego di capitale differente per il suo esercizio. Per cui potrebbe essere priva di scopo di lucro l’attività, costosa, che consente ai propri partecipanti di praticare lo sport della vela: è sufficiente che le quote partecipative ancorché elevate in valore assoluto siano appena sufficienti per coprire il fabbisogno per l’acquisto e la manutenzione delle imbarcazioni.
Il punto in definitiva va ricercato nel fatto che non è sostenibile la veridicità della formula secondo cui a quote partecipative contenute corrispondono un volume d’affari limitato ed un utile pari a zero.
Detta formula, infatti, trascura due parametri fondamentali: il numero degli iscritti ed il costo da sostenere per l’esercizio della disciplina sportiva.
Infatti, un numero di iscritti limitato (si pensi ad uno sport cosiddetto d’élite) potrebbe dare origine ad un basso volume d’affari se confrontato con quello realizzato per la pratica di uno sport che richiede basse quote partecipative ed è rivolto ad un pubblico allargato; e comunque anche se il volume d’affari fosse particolarmente consistente, alti costi di gestione degli impianti e delle attrezzature potrebbero dar luogo ad un costante pareggio dei conti.
Né, tantomeno, appare sostenibile che a quote contenute corrisponda necessariamente un principio di bilancio in pareggio.
Anche per queste ragioni non sembra sostenibile che il criterio possa essere adottato affinché i prestatori del servizio siano gestiti e amministrati a titolo essenzialmente gratuito da persone che non hanno, neanche indirettamente, interesse di alcun tipo ai risultati della gestione (punto (iii) che precede).
In questo caso, la tesi (peraltro non sostenuta neanche dal governo spagnolo) non sembra dimostrabile per assoluta carenza del nesso tra la gestione “disinteressata” e l’importo della quota partecipativa.
Più complesso, invece, è il riferimento alla condizione di cui al precedente punto (iv), laddove ci si riferisce ad una limitazione delle tariffe applicabili.
A ben vedere la norma comunitaria si preoccupa di evidenziare due livelli tariffari non superabili. Il primo relativo ad eventuali prezzi approvati dalla autorità pubblica, il secondo riferito al più classico dei prezzi di mercato, dove per prezzi di mercato si intende quelli praticati dai soggetti passivi iva.
Va detto subito che in Spagna, relativamente alle attività in esame, non vi sono tariffe imposte (cfr, peraltro, la stessa sentenza).
I prezzi di mercato, invece, esistono, come in tutti i settori. Risulta, tuttavia, difficile pensare che la quota partecipativa evidenziata possa essere esemplificativa dei prezzi di mercato di tutte le discipline sportive. Più che difficile, tale pensiero è da escludere.
Per quanto si potrebbe, sia pure debolmente, sostenere che l’amministrazione finanziaria spagnola, individuando il limite massimo delle quote abbia voluto essa stessa imporre il prezzo. In ogni caso ciò potrebbe essere con agilità contestato solo facendo riferimento al fatto che non è ammissibile stabilire per tutte le discipline sportive una medesima tariffa applicabile.
Ed in proposito valgono le precisazioni sopra esposte: si pensi ad esempio alla differenza di impiego di capitali necessari per consentire la pratica del polo, del golf piuttosto che del ping pong o del tiro con l’arco.
Per quel che riguarda, infine, il punto (v) che precede, le quote standard non sembrano minimamente idonee a garantire l’esclusione di distorsioni concorrenziali.
Paradossalmente potrebbe affermarsi il contrario, nel senso che l’esenzione potrebbe favorire la diffusione delle attività sportive con quote associative basse. In questo senso l’Amministrazione potrebbe essere considerata causa dell’alterazione del libero convincimento degli sportivi, orientati per ragioni economiche a prediligere sport che richiedono meno impiego di capitali per l’acquisto delle attrezzature.
A nulla, infine, varrebbe fare riferimento a questioni attinenti la capacità contributiva dell’associato: il principio posto dal legislatore comunitario appare finalizzato a favorire la pratica di qualsiasi sport, non esclusivamente quelli che richiedono contenuti costi.
Ancora una volta, in definitiva, la sentenza in esame regala uno spunto che lascia ampi spazi di riflessione all’interprete nazionale: la scelta del legislatore comunitario non consente discrezionali interpretazioni a livello nazionale, se non nei limiti espressamente indicati
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