Trust e presupposto soggettivo dell’IVA (Rivista Tributi del Ministero delle Finanze – 1998)

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE; sentenza 20 giugno 1996; causa C-155/94; Pres. Edward, Avv. Gen. Lenz (conclusioni confermate); Wellcome Trust Ltd. c. Commissioners of Customs & Excise; domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Value Added Tax Tribunal di Londra

 

MASSIME DELLA SENTENZA

 

Disposizioni fiscali – Armonizzazione delle legislazioni – Imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto – Attività  economiche ai sensi dell’art. 4 della sesta direttiva – Acquisto e cessione di titoli nell’ambito dell’amministrazione dei beni di un trust che persegue scopi di pubblica utilità – Esclusione

(Direttiva del Consiglio 77/388/CEE, art. 4, n. 2)

 

La nozione di attività economiche ai sensi dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva 77/88, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, deve essere interpretata nel senso che essa non comprende un’attività che consiste nell’acquisto e nella vendita di azioni e di altri titoli da parte di un trustee nell’ambito della gestione dei beni di un trust che persegue scopi di pubblica utilità.

 

Infatti, anche se la circostanza che tale trust non abbia la qualità di negoziatore di titoli professionista non esclude necessariamente che un’attività come quella di cui trattasi possa eventualmente essere qualificata attività economica – giacché l’art. 4 definisce in maniera molto ampia la sfera di applicazione  dell’imposta sul valore aggiunto -, non costituisce un’attività siffatta il mero esercizio del diritto di proprietà che configurano gli acquisti e le cessioni di partecipazioni finanziarie presso altre imprese effettuati da un trust che amministra il patrimonio che possiede, alla stregua di un investitore privato, e le cui attività d’investimento consistono essenzialmente nelle dette operazioni allo scopo di massimizzare i dividendi o le rendite del capitale destinati a fornire i mezzi per la realizzazione del suo scopo non commerciale.

 

  1. La sentenza in commento risolve alcuni dubbi interpretativi sorti in merito alla nozione di “attività economica” di cui all’art. 4 della Direttiva del Consiglio n. 388 del 17 maggio 1977[1] (la “Direttiva 77/388”). Trattasi di chiarimenti di notevole rilevanza in materia fiscale, poiché tale nozione funge da criterio-guida ai fini della delimitazione dell’ambito d’applicazione della disciplina sull’I.V.A.. Lo svolgimento di un’”attività economica”, infatti, caratterizza il soggetto che la compie come “soggetto passivo” e, di conseguenza, ne sancisce l’assoggettabilità alle norme della direttiva stessa.

In relazione all’art. 4 della Direttiva 77/388 non si è sviluppata, fino ad ora, una vasta casistica a livello comunitario. L’unico precedente di un certo rilievo è costituito dalla sentenza Polysar del 20 giugno 1991[2] (su cui nel prosieguo), riguardante l’applicabilità della disciplina I.V.A. alle operazioni di semplice detenzione ed acquisto di partecipazioni azionarie. La scarsa frequenza di controversie scaturenti dall’esatta definizione di “attività economica” è dovuta soprattutto alla vasta formulazione adottata dal legislatore comunitario, suscettibile di ricoprire qualsiasi attività avente un contenuto economico e svolta nel quadro di una stabile attività professionale[3]. In proposito, va anche segnalato che le stesse autorità comunitarie hanno ripetutamente affermato che l’art. 4 della Direttiva 77/388 deve essere interpretato nel modo più ampio possibile, affinché tutte le attività economiche siano disciplinate allo stesso modo sotto il profilo tributario (c.d. principio della neutralità fiscale)[4].

  1. Il quesito posto all’attenzione della Corte di giustizia consiste nel valutare se la nozione di attività economica, come definita dall’art. 4 della Direttiva 77/388, ricomprenda anche l’attività di compravendita di valori mobiliari effettuata da un soggetto operante, almeno apparentemente, a titolo di investitore privato. Si tratta, nella specie, di un “trust” disciplinato dal diritto inglese, il Wellcome Trust Limited, il cui oggetto sociale consisterebbe, inter alia, nella gestione di un portafoglio di valori mobiliari. I relativi proventi sono statutariamente destinati al finanziamento di ricerche nei campi medico e farmaceutico, con espressa esclusione di qualsiasi attività finalizzata ad intenti meramente speculativi. In sostanza, le norme statutarie che disciplinano il funzionamento del trust condizionano sensibilmente la discrezionalità degli amministratori, vietando loro lo svolgimento, su base stabile e professionale, di attività finanziarie o speculative. Tale ricostruzione dei fatti emerge in maniera del tutto pacifica dagli atti di causa.

Stando così le cose, la risposta della Corte di giustizia potrebbe sembrare scontata, visto che la Direttiva 388/77 è quanto mai precisa ed univoca nel ricollegare la nozione di “attività economica”, ai sensi dell’art. 4, alla svolgimento di una stabile attività professionale. Sennonché, come rilevato dallo stesso Avv. Gen. Lenz[5], la fattispecie posta all’attenzione della Corte di giustizia presenta alcune peculiarità che meritano specifiche ed ulteriori riflessioni.

In particolare, la ricorrente ha fatto valere come le operazioni finanziarie per le quali è sorta la controversia con l’amministrazione fiscale inglese abbiano avuto un peso economico considerevole. In un caso si è trattato di una vendita di valori mobiliari pari a 200 milioni di sterline, tanto da poter essere considerata come la più grande operazione finanziaria mai posta in essere da un “investitore privato” in Gran Bretagna.

Tale circostanza, tuttavia, non è stata ritenuta decisiva dai giudici comunitari. Si è giustamente osservato, infatti, come l’entità economica delle operazioni poste in essere non abbia alcuna rilevanza ai fini dell’interpretazione dell’art. 4 della Direttiva. Ciò che rileva, invece, è la natura dell’attività svolta, se sia professionale o meno, valutando, in particolare, quali siano gli scopi effettivamente perseguiti dall’investitore.

L’investitore privato, infatti, mira sostanzialmente a gestire il proprio patrimonio, direttamente o attraverso intermediari, al fine di incrementarlo attraverso la realizzazione di dividendi elevati e stabili. Il compimento di rischiose attività speculative non gli è precluso ma, come giustamente osservato dall’Avv. Gen. Lenz, ciò non ne costituisce la regola[6]. Quello che caratterizza l’investitore professionale, invece, è la ricerca di profitti da realizzarsi acquistando e vendendo valori mobiliari mediante investimenti e speculazioni anche rischiosi. Esso non mira ad una amministrazione “statica” del patrimonio, quanto ad una gestione “dinamica” dello stesso[7].

Una conclusione differente potrebbe trarsi solo qualora, come già affermato dalla stessa Corte di giustizia nella citata sentenza Polysar, la gestione dei valori mobiliari, nel caso di specie azioni, sia strumentale alla presa di controllo di società commerciali, al fine di influenzarne la condotta economica. Tale circostanza, infatti, è stata considerata come l’unica eccezione alla regola secondo la quale la detenzione di quote sociali non costituisce un’attività economica ai sensi dell’art. 4 della Direttiva.

Quanto sopra, infine, non è in contrasto con il citato principio della neutralità fiscale, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente. Come giustamente osservato dalla Corte di giustizia[8], anche se tale principio implica che tutte le attività economiche debbano essere trattate allo stesso modo, ciò presuppone che le attività considerate siano effettivamente tali, altrimenti esse non potranno giovarsi della regola del pari trattamento fiscale. Ciò non è avvenuto nel caso di specie, poiché il Wellcome Trust Limited è stato correttamente riconosciuto essere un investitore privato.

 

  1. La sentenza in commento consente di effettuare una riflessione anche con riferimento alle recenti modifiche (D.Lgs 313/97) che hanno caratterizzato il regime di tassazione dell’imposta sul valore aggiunto in Italia.

Come segnalato, gli articoli 2 e 4 della sesta direttiva individuano i presupposti per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.

Si afferma, infatti, che sono imponibili le operazioni di cessione di beni e di prestazioni di servizi effettuate “da un soggetto passivo che agisce in quanto tale”. E’ soggetto passivo, ai sensi dell’art. 4 (paragrafo 1) “chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”. Ai sensi del successivo paragrafo 2, “le attività economiche (…) sono tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi (…). Si considera in particolare attività economica un’operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavare introiti avente un certo carattere di stabilità”.

Il legislatore comunitario, dunque, riferendosi all’esercizio – indipendente – di attività economica, pone l’accento, tra l’altro, sui concetti di stabilità e di abitualità.

Com’è noto, tali principi sono individuabili nella normativa interna, la quale, ovviamente, ha proceduto nella definizione di attività di impresa ai fini I.V.A., ricorrendo a strumenti tipici del diritto italiano, pur non rimanendo saldamente fedele ad ogni aspetto della disciplina civilistica.

Ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. 633/72, infatti, costituisce attività di impresa l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di una delle attività previste dagli articoli 2135 e 2195 c.c., “anche se non organizzate in forma di impresa” (presupposto della nozione di imprenditore di cui al noto art. 2082). Le recenti modifiche al regime I.V.A. cui si è fatto cenno, in vigore dal 1° gennaio 1998, hanno esteso la soggettività passiva a tutte le ipotesi in cui l’attività, pur discostandosi da quelle elencate dall’art. 2195, sia organizzata in forma di impresa.

  1. Nel tentativo di analizzare più da vicino gli elementi che qualificano una mera attività come “attività di impresa ai fini I.V.A.” si deve ricorrere a fattori, quali la rilevanza economica, la molteplicità e la complessità delle operazioni poste in essere, il fine di lucro, nonché la ripetitività, l’opportuna organizzazione di mezzi ed un certo grado di stabilità che presi isolatamente non sono sufficienti a manifestare le caratteristiche ricercate dal legislatore comunitario e da quello nazionale, poi, ma che coordinati hanno consentito alla giurisprudenza di affermare la sussistenza del presupposto della professionalità anche in presenza di un solo affare o di un’attività stagionale.

Si prescinde, poi, dalla esclusività dell’esercizio dell’attività, ben potendosi configurare una serie di attività parallele poste in essere dal soggetto passivo.

Una persona fisica – soggetto passivo in quanto esercita professionalmente, ancorché non abitualmente, una determinata attività, considerata commerciale – relativamente alle operazioni che non rientrano in tale sfera applicativa, non può essere considerata soggetto passivo.

Le operazioni poste in essere “fuori dell’impresa”, da considerare fuori del campo di applicazione dell’IVA, sono riconoscibili in quanto aventi ad oggetto: (i) beni non relativi all’impresa, che con l’impresa, quindi, non sono né in un rapporto di strumentalità (immobili, impianti e macchinari etc.) né di commercialità (merci, prodotti destinati alla vendita etc.); (ii) servizi non resi nell’esercizio tipico dell’attività.

Ebbene, questo principio riservato alle persone fisiche è stato solo con la modifica la regime I.V.A. esteso alle società di persone e di capitali, alle quali sino ad oggi si è applicata esclusivamente la presunzione di commercialità di cui all’art. 4, comma 2, n. 1), ai sensi del quale, si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio dell’attività di impresa le operazioni poste in essere nell’ambito di attività svolte in forma societaria, a prescindere, dunque, da ogni valutazione relativa alla afferenza dell’operazione.

  1. La presunzione, con il D.Lgs 313/97, rimane certamente in vigore, ma con un determinante ridimensionamento: infatti, l’art. 2 del cit. D.Lgs., integrando il comma 5 dell’art. 4 del D.P.R. 633/72, prevede, tra l’altro, che non è considerato attività commerciale – anche in deroga alla presunzione di cui al comma 2 del medesimo art. 4 del D.P.R. 633 – “il possesso non strumentale né accessorio ad altre attività esercitate, di partecipazioni o quote sociali, di obbligazioni o titoli similari, costituenti immobilizzazioni, al fine di percepire dividendi, interessi o altri frutti, senza strutture dirette ad esercitare attività finanziaria, ovvero attività di indirizzo, di coordinamento o altri interventi nella gestione delle società partecipate”.

Per cui, a partire dal 1° gennaio 1998 (tale risulta la decorrenza dell’applicazione del decreto legislativo citato, ex comma 8, art. 11) il possesso di partecipazioni immobilizzate, se ricorrono le condizioni evidenziate, non è considerato rilevante ai fini I.V.A., anche se ciò avviene nell’ambito di attività di imprese esercitate in forma societaria.

Dello stesso tenore la norma integrativa del comma 5 del medesimo articolo 4, secondo cui l’esclusione della soggettività per qualunque soggetto, anche societario, del possesso per godimento vale anche per “unità immobiliari classificate o classificabili nella categoria catastale A e le loro pertinenze, ad esclusione delle unità classificate o classificabili nella categoria catastale A10, di unità da diporto, di aeromobili da turismo o di qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato, di complessi sportivi o ricreativi, compresi quelli destinati all’ormeggio, al ricovero e al servizio di unità da diporto, da parte di società o enti, qualora la partecipazione ad essi consenta, gratuitamente o verso un corrispettivo inferiore al valore normale, il godimento, personale o familiare dei beni e degli impianti stessi, ovvero quando tale godimento sia conseguito indirettamente dai soci o partecipanti, alle suddette condizioni, anche attraverso la partecipazione ad associazioni, enti o altre organizzazioni”.

Tale disciplina si rende applicabile, dunque, alle società di comodo, ma è da chiarire che la portata innovativa è da ricercare nel fatto che nell’articolato il principio dell’esclusione è applicato a determinate “attività”. Dunque sembrerebbe più corretto parlare di “attività di comodo” in genere: in sostanza una società (soggetto passivo I.V.A.) che si trova a porre in essere una delle attività non più considerate commerciali dalla riforma, svolgerebbe, limitatamente a quelle operazioni, una attività non commerciale. Dalla stessa relazione governativa di accompagnamento si legge che “con la norma in esame, in sostanza, viene a crearsi nel patrimonio delle società e degli enti, analogamente a quanto avviene per le persone fisiche, una sfera “non commerciale” parallela a quella commerciale”.

 

                                                                                   Innocenzo Maria Genna

                                                                                   Carlo Geronimo Cardia

 

 

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